tratto da
L’Avaro di Molière
drammaturgia e regia
Mirko Di Martino
con
Lello Serao, Titti Nuzzolese, Antonio D’Avino, Marcello Gravina, Diletta Masetti, Roberto Ingenito, Nello Provenzano, Ivan Graziano, Fabiana Spinosa
costumi
Annalisa Ciaramella
scene
Laura Lisanti
aiuto regia
Victoria De Campora
Arpagone è un vecchio taccagno che, pur di non spendere i propri soldi, ha deciso di far sposare alla figlia Elisa un vecchio facoltoso che non esige alcuna dote. Lui stesso, invece, ha deciso di sposare la giovane Mariana, una giovane ragazza bella ma povera, di cui è segretamente innamorato l’altro suo figlio, Cleante. Ma i disegni di Arpagone non tengono conto dei reali sentimenti dei figli: Elisa è infatti innamorata del contabile Valerio, un giovane che, per stare accanto alla ragazza, asseconda le manie di Arpagone nascondendo la sua vera identità; Cleante, invece, è deciso a fare di tutto pur di sposare la ragazza che ama. Quando il giovane Freccia, amico del figlio, riesce a rubare le cambiali che Arpagone tiene chiuse in casa, l’avaro diviene pazzo dal dolore. Alla fine il suo cuoco, geloso della preferenza che Arpagone riservava a Valerio, decide di incolpare quest’ultimo del reato. Valerio, ignaro del furto del denaro, crede che il padrone abbia scoperto l’amore segreto fra lui ed Elisa. Le sue giustificazioni inducono Arpagone a sospettare che, non solo gli abbia sottratto il denaro, ma abbia anche avuto l’ardire di strappare una promessa di matrimonio alla figlia.
Lo spettacolo prende i personaggi dell’Avaro di Molière e li trasporta in Italia nei primi anni ‘60, quando il pranzo della domenica era ancora un rito familiare da non trascurare, quando gli italiani scoprirono all’improvviso il benessere e il consumismo. L’avaro, in questo adattamento che conserva l’esplosiva comicità dell’originale, non è più il tirchio della tradizione, attaccato al denaro per non sperperarlo, ma l’imprenditore della nuova borghesia, attaccato al denaro per guadagnarne ancora di più. Il denaro non è l’oggetto, ma lo scopo del suo lavoro, anzi, della sua stessa vita. Intorno a lui è in atto una grande trasformazione: per la prima volta, i giovani appaiono come una categoria a sé che rifiuta l’autorità dei padri e chiede spazio e visibilità. Il loro incontenibile desiderio di far ascoltare la propria voce si esprime attraverso la musica e la moda, con l’esplosione degli urlatori, dei Teddy Boys, del beat, delle minigonne, dei jeans. L’avaro Arpagone vede tutto questo ma lo rifiuta, percepisce il cambiamento ma non lo comprende: intuisce che è arrivato il tempo del denaro, della ricchezza, del consumismo, ma non comprende che i protagonisti della nuova Italia saranno proprio i giovani come i suoi figli, che lui invece si ostina a trattare come bambini privi di capacità di intendere e di volere. La sua resistenza ostinata al cambiamento, il suo attaccamento al passato, prima che al denaro, lo porteranno alla rovina. La cecità di Arpagone è, in fondo, anche quella di una generazione intera: quella che aveva visto il fascismo, la guerra, la resistenza, la Repubblica. Quegli uomini erano stati in grado di dar vita alla nuova Italia, eppure, abbagliati dalle luci del boom economico, erano incapaci di vedere la notte che stava arrivando.
Debutto: 29 agosto 2015, Chiostro di San Domenico Maggiore, Napoli. Lo spettacolo è stato realizzato con il sostegno del Festival “Mangiateatro” di Lioni AV